Sirene, streghe e amori maledetti: storie mitiche che chi va per mare deve conoscere
Una delle più antiche fascinazioni dell’umanità per il mare non riguarda la navigazione, la pesca o le rotte commerciali, bensì le voci che si dice provengano dai suoi abissi.
In ogni oceano e in ogni cultura ricorrono racconti di sirene o figure affini, che tornano in forme diverse: seduttrici, streghe, spiriti o dee.
Oggi le immaginiamo come donne bellissime dalla coda di pesce, metà umane metà marine. Sono però lontane dall’icona edulcorata di Disney. La loro vera natura è cupa e fatale, intrecciata al timore dei marinai che il mare custodisca una forza capace di attirare, sedurre e distruggere.
Per chi vive la vita di bordo, tra giorni e notti esposti al respiro interminabile delle onde, questo immaginario non è semplice ornamento né folklore. Nasce dall’esperienza. Quando la notte scende sul ponte, l’orizzonte si riduce a una linea nera e le onde sembrano cantare con voce propria, non è difficile capire perché i primi sospetti dei marinai abbiano preso la forma di storie di sirene, storie di paura, di pericolo e di morte. Solo più tardi, nelle versioni romantiche, le sirene diventano emblemi di bellezza e d’amore.

Sirene, Arpie e canti inebrianti
Nella mitologia greca le sirene non avevano coda di pesce. Omero, nell’Odissea, le descrive come creature alate, dotate di artigli e con volto di donna. La loro potenza non stava nel corpo, bensì nella voce: un canto che attira, inebria e distrugge. Il loro inno era più micidiale di qualsiasi forza armata.
Le iconografie successive, soprattutto in età romana e nei primi secoli cristiani, trasformarono gradualmente le sirene in figure metà donna e metà pesce. Questa forma si consolidò nel Medioevo e si arricchì di nuovi simboli: specchi, pettini e chiome fluenti, segnali inequivocabili di seduzione erotica.
Nel mondo nordico, lungo le fredde coste settentrionali, i racconti assumono un’altra fisionomia. Lì incontriamo le selkie, esseri che indossano pelli di foca e possono deporle per diventare donne. Le loro storie narrano amori tra donne selkie e uomini pescatori, ma con lo stesso esito: tornano al mare, fuggendo dalla vita di terra. Per quanto forte sia l’amore, non dura mai.
Nel folclore slavo, soprattutto nell’Europa orientale, compaiono le rusalke, spiriti d’acqua e anime di giovani donne morte in modo violento, spesso tradite o annegate. Le rusalke danzano sulle rive di fiumi e laghi, attirando gli uomini a unirsi a loro. Chi entra nella loro danza finisce in acqua, annega e viene strappato alla comunità.
Tutti questi miti mettono in chiaro una verità: mentre l’umanità camminava sulla terra, il mare rimaneva spazio di oscurità e di ignoto. E quell’ignoto trovava la sua spiegazione più efficace in una figura femminile, seducente e al tempo stesso letale.
Femme fatale dagli abissi marini
Per i marinai europei tra il tardo Medioevo e l’età moderna, la sirena divenne il simbolo della donna fatale, colei che seduce e distrugge. L’archetipo della femme fatale, molto prima di diventare un motivo della letteratura e del cinema dell’Ottocento e del Novecento, si è formato proprio nella culla dei miti marini.
Sulle antiche carte nautiche dei secoli XV e XVI, vere e proprie mappe della paura, vicino alle coste e alle distese d’acqua comparivano draghi, mostri marini e sirene. Spesso reggono uno specchio, emblema di vanità, illusione e inganno, ma anche di riflesso: il mare rimanda lo sguardo umano e restituisce paure e desideri.
Per un marinaio stremato da una notte agitata in coperta, ogni ombra o schiuma sull’onda poteva prendere sembianze femminili. Tra veglia e allucinazione nasceva la figura della sirena. Era al tempo stesso desiderio e pericolo, un monito: la bellezza non si contempla senza pagarne il prezzo.

La sorella oscura della sirena
Se le sirene erano le seduttrici del mare, le streghe marine ne erano le sovrane. La mitologia nordica parla della dea Rán, che tiene reti tra le mani, cattura i viandanti e prima o poi li trascina negli abissi. Non è una donna che seduce, è una forza che inghiotte senza sentimentalismi.
Nell’immaginario slavo le rusalke possiedono questa doppia natura, insieme seduttrici e vendicatrici. Gli amanti delle rusalke sono perduti, perché il loro potere non risiede nell’eros ma nella morte. Sono spettri che ricordano come il mare e le acque non siano soltanto luoghi di erotismo, bensì di giustizia collettiva, vendetta e inquietudine.
In tutti questi racconti scopriamo il mare come “forza femminile”, mutevole, appassionata, vendicativa e mortale. Ogni marinaio che abbia affrontato una burrasca a 40 nodi lo sa bene: il mare non si comporta come una macchina o come un semplice ingranaggio della natura, si comporta come un essere vivente. E quando si adira è furioso quanto un’amante offesa.
L’amore sull’orlo della morte
Uno dei motivi più duraturi dei miti marini è l’amore proibito tra un uomo e una donna del mare. Questi racconti intrecciano passione, desiderio e fatalità. L’amore può accendersi in un lampo, ma non regge alla prova del tempo.
Nelle ballate irlandesi e scozzesi, un uomo s’innamora di una selkie e nasconde la sua pelle di foca per trattenerla accanto a sé. Lei accetta di vivere con lui, mette al mondo dei figli, ma appena ritrova la pelle ritorna al mare e abbandona la famiglia. La malinconia di questi canti indica un dolore universale: l’amore fra due mondi si conclude sempre con una perdita.
Nel folklore slavo, i giovani che seguono le rusalki di solito scompaiono. Non diventano eroi, bensì figure tragiche. La relazione romantica con esseri marini implica sempre il varco di una soglia tra la vita e la morte.
Per i naviganti tutto ciò va oltre la fiaba. La navigazione a vela è sempre una storia d’amore con il mare, ricca di ardore e bellezza, ma anche di rischi e perdite. Non esiste capitano che non sia stato messo alla prova: ha sperato in un passaggio tranquillo e si è ritrovato tradito da una burrasca.
Sirene e leggende dell’Adriatico
Benché l’Adriatico non sia ricco di miti di sirene diffusi quanto quelli delle culture nordiche o celtiche, non manca di colmare il vuoto con racconti locali di fate marine e di voci misteriose provenienti dal profondo.
In età antica, i coloni greci portarono nel Mediterraneo le proprie sirene, e così gli scogli presso Vis, Hvar e Korčula conservano i nomi delle sirene greche Partenope, Leucosia e Ligea, unendo la geografia alle figure del mito. Quegli scogli, non solo riferimenti cartografici ma anche simboli del legame unico tra mare e racconto, continuano a trasmettere un’aura di pericolo e di mistero che impregna ancora oggi queste acque.
I cronisti medievali di Dubrovnik menzionano gli incontri dei marinai con i “canti del mare”, ritenuti segnali di tempeste o naufragi imminenti. Quelle melodie, spesso spiegate come l’eco del vento in grotte e canyon sottomarini, venivano intese anche come ammonimenti a non dare fondo dove il mare “sussurra”.
Pescatori e naviganti del luogo, nei secoli, hanno tramandato storie di “fate del mare” e di voci insolite nella nebbia, che spesso precedevano i fortunali. In Dalmazia abbondano i piccoli racconti su figure femminili con coda di delfino o di pesce avvistate presso le isole di Lastovo, le Kornati e altrove, storie trasmesse tra le genti come di custodi del mare ma anche di pericoli fatali.
Le leggende adriatiche, pur meno sistematiche o estese rispetto ai miti nordici, hanno un peso particolare, legato alla realtà topografica e climatica locale e a quel senso di incertezza nautica. Documentano il mondo marittimo come spazio in cui reale e mitico, naturale e soprannaturale, pericolo e bellezza s’incontrano, una tematica universale che tuttavia prende ogni volta la voce specifica dell’Adriatico.

Il mare come forza femminile
La psicologia junghiana interpreta la sirena come archetipo dell’anima, la dimensione femminile della psiche maschile. Il mare diventa una superficie di proiezione, e la sirena incarna ciò che gli uomini temono o desiderano nelle donne: libertà, seduzione, sessualità, ma anche potere.
Gli antropologi sottolineano che questi racconti fungevano da codici sociali. Mettevano in guardia i marinai dai pericoli del mare e dagli amori travolgenti con “donne pericolose”, capaci di condurre a una morte sociale o biologica. Il corpo della sirena unisce così natura e cultura e mette in evidenza la fragilità del confine tra noto e ignoto.
Per il marinaio moderno questa simbologia cambia. Oggi la sirena non è più una figura demonizzata della sessualità femminile, è un’eroina mitica e indomita, una donna che non si piega alle leggi della terra. Il suo lato “oscuro” attrae più di quanto faccia paura.
Il romanticismo oscuro oggi
Nell’epoca della cultura pop, la sirena è diventata seduttrice, icona romantica e figura femminista. Letteratura, cinema e serie l’hanno elaborata come archetipo di una donna al tempo stesso ideale e minaccia. Bellezza a caro prezzo, amore che sfiora la morte: questo impianto continua a esercitare fascino anche nel XXI secolo.
Per chi oggi interpreta il mare, questo richiamo ha pure una dimensione concreta. L’immagine di una donna tra le onde coincide con l’immagine di un mare infinito, inafferrabile e seducente, ma anche pericolosamente mortale. Il mare resta l’amante più insidioso, e la sirena ne è il simbolo reso umano.
Il mare come amore oscuro
I racconti di sirene, streghe del mare e amori maledetti non sono semplice folklore. Costituiscono una chiave interpretativa attraverso cui generazioni di marinai hanno compreso l’elemento marino, così imprevedibile.
Per i naviganti di un tempo erano avvertimenti; per quelli di oggi diventano inviti a viaggi interiori. Nel momento in cui restiamo soli in coperta, mentre il crepuscolo cancella l’orizzonte e la superficie dell’oceano respira sotto di noi, possiamo cogliere quella voce archetipica del mare.
Forse il mare non cela sirene in carne e ossa, ma nella loro figura nasconde il nostro rapporto con lui: passione, desiderio, rischio, amore, morte. Ecco perché le sirene restano, ora come allora, irresistibili.

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